martedì 7 febbraio 2012

Piacenza: “L’obiettivo del regime", volume fotografico di Fabrizio Achilli [con, in coda, di mio padre in camicia nera]


Due eventi con i quali di recente sono venuto a contatto che riportano al triste periodo del ventennio: un volume che fa seguito ad una mostra fotografica riferita al periodo dal 1923 al 1940 (“l’obiettivo del regime - fascismo e rappresentazione a Piacenza”) e una seconda mostra promossa dalla Banca di Piacenza con interessante catalogo dedicata a Osvaldo Barbieri, in arte Bot, pittore futurista, piacentino, tra i più fervidi sostenitori del fascismo e soprattutto cantore dell’opportunità dell’entrata in guerra.



Il primo: due studi fotografici piacentini, Croce e Manzotti, hanno unito i loro archivi e, con il sostegno di un editore locale e di alcuni autorevoli studiosi (tra i quali in primis Maurizio Cavalloni e Fabrizio Achilli, presidente a Piacenza dell’Istituto di Storia della Resistenza) hanno confezionato una mostra (che purtroppo mi son perso) e un volume di indubbio interesse (e di ragguardevole costo: 45 euro).



Sfilano personaggi nazionali e locali in visita alla città padana,



la macchina fotografica immortala i cantieri vanto di un fascismo che produce ed ottiene consenso perché

il fatto è che il Fascismo si vede …

(frase del gerarca Bottai),



ci sono le grandi adunate in città (oceaniche) e nei principali centri della provincia, a dimostrazione che, di riffa o di raffa, voluto o subito che fosse, il fascismo fu un grande fenomeno di massa,



immancabili le giornate della ginnastica, le colonie estive per i bambini,

fino alla militarizzazione della gioventù,

con i balilla sull'attenti apparentemente orgogliosi del loro moschetto

e le maestrine della scuola materna fotografate nel saluto romano

(invero non per tutte così palesemente convinto,

qualcuna par limitarsi ad uno stentato "ciao"),



infine la voglia della guerra, i muscoli che si scaldano,

Mussolini che ritorna all’Arsenale Militare cittadino,

lo storico quotidiano locale (“Libertà”, naturalmente ribattezzato per il ventennio “La scure”) conclude il periodo ed il volume

con la riproduzione della pagina annunciante la resa della Francia:

l’avanzata del nazismo sembra inarrestabile e il Duce teme di perdere il treno dell’espansione;

inizia un’altra storia

(non a caso il volume si fregia di essere il primo di una serie ancora da scoprire).






Pochi mesi fa mio padre ha spento la torta con le sue prime ottanta candeline. Tra i suoi tanti ricordi c’è una foto nella quale, credo studentello nei primi anni delle superiori (che dovrà interrompere per il venire meno dei collegamenti con la città capoluogo dato l’infelice evolvere del conflitto), è inquadrato in classe con tanto di impeccabile camicia nera.



Bisognava pur vivere”, mi raccontava quando ero bambino, “e l’unico modo per non essere emarginati era indossare a scuola la camicia nera così il nonno iscrisse tutti noi fratelli e sorelle”.




Lui, invece, mio nonno, lui no.

Vecchio socialista, lavorava in un forno, a fare il pane. Tra i suoi incarichi c’era quello di portare il pane bianco a Sua Eccellenza il Podestà. Ogni tanto, di solito all’uscita dall’osteria (la vecchia cooperativa di consumo socialista), i fascisti gli davano una “ripassata”, tanto per precisare che non avevano dimenticato i suoi orientamenti. All’indomani, tutto pesto, si presentava dal Podestà con una pagnotta di pane nero.



Negli anni bui della guerra ogni tanto inforcava la bicicletta e spariva per qualche giorno (notti comprese). Mio padre racconta che andava nelle campagne e nei paesi limitrofi a portare i fogli dei giornali clandestini, del sindacato e del partito. Forse invero non era tutta una questione di opposizione al fascismo, di lotta dura e di Resistenza, forse dietro quelle sparizioni c’era anche qualche storia di cuore, perché spesso i babbi nel corso della vita incontrano una donna diversa dalla mamma e di quella donna s’innamorano. Ma alla fine, mi raccontava mia nonna, “il mio uomo tornava nel mio letto”.



Forse anche alle spalle di quelle notti quando non rientrava dall’osteria non sempre il motivo era la violenza delle odiate camicie nere: a volte mio padre, superata l’ultima ora  ammissibile, in quanto maggiore dei figli maschi, usciva a cercarlo. Talvolta lo trovava per strada, dolorante e pesto per via dei vigliacchi fascisti (che agivano sempre in corpose squadre). Talvolta invece lo trovava … perso, addormentato in corposa banda con altri compagni d'idee e sodali di bisboccia, spesso ormai tutti nello stesso stato appoggiati al tavolo dell’osteria per il troppo vino e, amorevolmente, come solo un figlio sa fare, lo aiutava a ritornare a casa.




Un nonno insomma “proletario”, morto quando il suo primo nipote (io) faceva un anno e lui 58 (“beh, in fondo era vecchio”, ha sempre detto mio padre fin verso i 50 anni; poi non è più tornato sull’argomento fin quando, qualche anno fa, ha finalmente realizzato che i tempi erano cambiati, che l’età media di aspettativa di vita si è alzata, che insomma lui, mio padre, i 58 li ha ormai brillantemente superati fermo restando che “sia ben chiaro, fatti 80 anni ancora non sono certo vecchio”).



Un nonno "proletario", dicevo, nel senso che l’ho sempre pensato un uomo con i suoi limiti, i difetti, le contraddizioni di chi ha condotto con dignità una vita basata sul lavoro. Non un eroe, ma una persona che ha attraversato le contraddizioni della sua epoca (e le contraddizioni della vita umana) mantenendo la coerenza ideale possibile, cioè una coerenza contestualmente parallela alle debolezze che sono proprie dell’essere uomini, ma, nello stesso tempo, ponendo innanzi a tutto la garanzia di un presente e di un futuro ai suoi figli.



Anche se quel presente e quel futuro, imposti dalla dittatura, non erano il presente ed il futuro che lui avrebbe voluto.



Per questo mio padre, i suoi fratelli, le sue sorelle si ritrovarono, bambini, a scuola con indosso la camicia che mai e poi mai, invece, avrebbe indossato il loro padre.




Il racconto della memoria si conclude nel 1946.



Si vota per la Costituente, il fascismo è caduto, il Re finalmente mandato a casa. Francesco (mio nonno) attraversa la piazza del paese diretto verso il seggio elettorale. A sinistra tiene per mano Fabio (mio padre), a destra Olga (mia zia) ed è chiaro come voteranno.



All’occhiello della giacca di Francesco,

che tutta la piazza vede,

 che soprattutto vedono quelli che la tessera del Partito Fascista

l’avevano avuta non per bisogno ma per libera scelta,

all’occhiello della giacca di mio nonno Francesco

mentre attraversa la piazza con i suoi figli per mano diretti al seggio elettorale,

fa mostra di sé uno sgargiante garofano rosso.



E il Partito Socialista di Unità Proletaria, morta e sepolta la belva Fascista, in quel 1946 uscirà dai seggi come primo partito della sinistra, superando anche i compagni del P.C.I., quelli della scissione di Livorno del ’21.

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