martedì 14 febbraio 2012

“Lei è lì”, racconto breve di Gianna Batistoni (Brigatta), bibliotecaria, blogger in Firenze (31/01/2010)

Donna in campo celeste, olio su tela di Paolo Avanzi

Sono le due e trenta del pomeriggio. Il grigio dell’asfalto è salito fino al cielo e il cielo da stamani non aspetta altro che piovere una pioggia fine, lenta e uggiosa che duri fino a domani. E’ uno di quei giorni già visti, fermo immagine di tanti altri, un giorno normale a ragione, con tutta la noia del caso. Le mie carte sparse sul tavolo e quella che cerco chissà dove. Le solite penne che non scrivono quando servono per appunti veloci. Il collega fuori stanza. E lei è lì. La vedo sempre quando è già arrivata, non so da che direzione raggiunga la fermata. Oggi dalla solita borsa quattrostagioni spunta un ombrellino. E’ una ragazza prevedibile e previdente. Lei è lì ogni giorno a quest’ora. Posso dire che la sua presenza mi dia il senso della realtà. Anche se mi dico “Oggi sarà diverso…”, riesco a convincermi solo fino alle due e trenta. Poi butto uno sguardo per strada e la vedo lì in piedi alla fermata; è in posizione di stand-by, con il vetro della mia finestra che sembra lo schermo dove scorrono i fotogrammi di tante vite di passaggio, ma della sua riesce a rimandarmi soltanto quella posizione immobile. Sarà perché gli altri passano, e lei resta sempre, che la considero la protagonista. Stasera butterò via tutte le penne che non scrivono e ordinerò le carte, chiederò al collega di prendere le mie telefonate, per quanto gli sarà possibile. Domani mi devo spostare dall’ufficio per un lavoro fuori città. In treno prenderò un posto vicino al finestrino, alle due e trenta chiuderò gli occhi e la penserò lì dietro al vetro, davanti alla fermata, sapendo di non sbagliare.

sabato 11 febbraio 2012

“Un incontro per caso”, fiaba di Silvana Trabanelli di Ferrara, dal blog “Amor ca’ nullo amato (poesia e non)” [24/01/2010]

Ali d'angelo, olio su tela, di Daniela Baldo

Una sera passeggiando lungo un viale alberato e poco illuminato, immersa
nei miei pensieri, accadde qualcosa che cambiò la mia vita.
Mi sembrò un sogno quel che vedevo, uno di quei sogni che ne farai uno
in tutta la tua vita. Sembrano reali e ti fanno svegliare nel cuore
della notte tutta sudata. Sogni , che ti cambiano la vita, e se non lo fanno, quantomeno ti fanno riflettere. Quei sogni che non dimentichi e
non sai perché ma ti restano dentro.- Un'ombra avanzava verso di me,
passò senza nemmeno guardarmi. Mi fermai un attimo. Intorno a me,
i colori della sera tarda si tingevano delle calde tonalità del tramonto.
L’aria profumava del buon odore , che solo chi è attento può sentire.
D'improvviso scese la notte, ed io mi trovai seduta sulla cima
di un monte, e da lontano potevo scorgere le luci della città.
Non capivo, mi rendevo solo conto che la situazione era cambiata...
Non stavo più passeggiando, ero sulla vetta di un monte.
Era tutto fantastico. Sedetti con le gambe rivolte alla valle.
Sotto di me vedevo le luci piccolissime lontane , come tanti
pulviscoli di stelle... Immaginavo i rumori della città. Pensavo che
ogni puntino era una vita, che si portava dietro il proprio bagaglio
di esperienze e ricordi. Migliaia di persone con vite diverse, guidate
tutte da un destino invisibile. Avevo quella sensazione, tutti hanno
quella sensazione quando guardano una città dall’alto. E,
mentre pensavo a queste cose, udii una voce, accanto a me.
«Certo che è proprio uno spettacolo la città, vista da
qui.» Risposi di si, senza voltarmi. La voce continuò.
«Vieni spesso quassù?» «No, questa è la prima
volta.» «Sai, io sono stato su tutti i tetti della città,
ma questo è il posto che preferisco. '' «Non lo so, questo è
il…» M’interruppi, perché lo vidi. Era un ragazzo, o forse una
ragazza, non lo capivo dalla voce ed era in penombra..
Però, ne vedevo il profilo ed era strano… cioè, aveva qualcosa
sulla schiena, qualcosa che sembravano un paio d’ali piumate,
richiuse e bianchissime. «…il… il primo monte che visito.» terminai.
Quello che io vedevo era un angelo, in posizione raccolta distante
non più di due metri da me. Non so se lui capi il mio stupore,
ma continuò a parlare: «Bhe, secondo me, questo è il migliore.
Si vedono le magnificenze umane e loro stessi che ti passano sotto.
Non so perché, ma qui la gente pensa più del solito.» «Pensa?» «Sì.
Non dire che non te ne sei accorta: quello coi capelli brizzolati
pensa al suo lavoro, quel bambino ai giocattoli che non
ha...» Ero impressionata. Diceva le stesse cose che avevo
pensato io un attimo prima! Lo osservavo mentre parlava.
Io non credevo agli angeli, o per lo meno non li immaginavo
con un’aureola o quanto meno illuminati di una vaga fluorescenza.
Questo no, non aveva aureola né era fluorescente.- -
Si era voltato a guardarmi. Vedevo i tratti del suo volto,
con la luce della luna, straordinariamente puliti e candidi.
Non capivo, però, il significato di quella domanda.
«E’… normale, come parliamo io e te. Può essere divertente,
o piacevole, o triste, o puoi anche essere in collera.» Vedevo in lui una
curiosità che lo spingeva a farmi mille domande.
Tuttavia, riusciva a trattenersi. «Piacevole?
Ma capiscono subito quello che gli dici?» «No, non sempre.
E allora devi spiegare meglio quello che non viene capito, e
magari ripeterlo ancora o alla peggio ricominciare da capo.»
L’angelo sembrava deluso. Ma continuava con le domande.
«E le parole? Come sono le parole che ti dicono?» «Come sono
le parole? A volte dure, a volte dolci… ma dipende di cosa
si parla.» «No, le parole… come sono?» «Vuoi dire il tono?»
«No no… le parole… come sono, come sono le loro
parole?» Non sapevo cosa rispondergli, continuavo a non
capire cosa volesse e cosa significassero le sue domande.
Lui si rabbuiò e di fronte al mio sguardo perso voltò il capo verso
il basso, verso la valle, e abortì tutte le domande che aveva in mente.
Poi, sottovoce, sussurrò: «Io non parlerò mai con
loro.» Non commentai. Ne ammiravo l’armonioso profilo.
«Io non posso.» Aveva l’aria triste. Io continuavo a tacere.
«Ho visto tante cose in questo mondo. Ho ammirato e pregato
per le meraviglie del mondo, ho gioito per le conquiste umane.
Ho agito al servizio dell’uomo e da Dio sempre ispirato.
Ma di tutto questo fare e girare, una sola cosa mi è preclusa.
Parlare con un uomo.» «Perché?» «Lo possono fare solo pochi di noi.
Solo gli arcangeli.» Non disse quella parola ma l’idea che ne ebbi
fu questa. Continuò: «C’è un piacere particolare a parlare
con loro, un sottile piacere che non si può descrivere.
Un misto di peccato e purezza. Loro sono la più bella delle
creature ed allo stesso tempo la più impura. Noi non
possiamo parlare con nulla che abbia peccato. A patto di perdere
le ali.» «Perdere le ali?» gli chiesi «che assurdità!» «Eppure, è così.
Perderemmo la capacità di volare. Resteremmo comunque invisibili,
ma saremmo come povere anime vaganti che aspettano il giorno
della chiamata, senza nessuna missione da compiere, con la sola
possibilità di parlare agli uomini senza neanche la certezza
di dire loro cose buone e giuste. No, meglio di no… Non varrebbe più
la pena di vivere.» «Non riesco ad immaginarti senza
ali.» gli dissi francamente. Lui sorrise. Poi, si s'alzò in piedi.
Guardava ancora giù. Poi si volse verso di me. Io ero ancora
seduta. «Grazie, mia cara. E’ stato un piacere parlare con te.»
E detto questo, spiccò un salto nel vuoto. Il tempo sembrò rallentarsi
per la quantità di pensieri che improvvisamente mi invasero la mente.
Era un angelo, sapeva volare, era spettacolare aver parlato con lui e
adesso vederlo spiccare il volo… ero certa di vivere un’esperienza
unica. Però, in quella frazione di secondo non ero tranquilla.
Qualcosa non quadrava. E me ne accorsi solo quando lo vidi
precipitare giù, a piombo, verso la valle giù in basso.
Cadeva guardandomi, sguardo triste, occhi in lacrime,
piccole gocce di pianto brillanti di luce dorata, mani tese, le ali ancora
ripiegate, non le apriva, non poteva. Aveva parlato con me.
«NO!» gli urlai, mentre lo guardavo cadere. «Io sono umana! NO! NO!!»
E lui mi rispose, nella mente. «Lo sapevo.» E piangeva, sussurrando
un addio. Mi svegliai di soprassalto. Ero agitatissima e sudavo. Avevo urlato.
Ancora adesso, nel ripensare a quell’immagine – quella dell’angelo
che cade – provo un senso di colpa e di impotenza disarmante.-
Ero rimasta impressionata.. Il fatto di essere umani,
“la più bella tra le creature ed allo stesso tempo la più impura”,
la condizione che abbiamo tutti, mi faceva stare male.
Cercai di ricordare la strada che vedevo, Ero proprio nella zona dove la
gente pensa… chissà cos’è, poi, che qui ci fa pensare.
Girai l'angolo. Percorsi alcune decine di metri, fra la gente
che passava indifferente e pensierosa. -Certo che- dissi tra me ,
fermandomi -quell’angelo deve aver fatto un bel botto quand’è caduto.-
Senza motivo, mi ero fermata e guardavo in su, l’alto dei palazzi
ed il nero della notte. Restai attonita nel vedere una lunga piuma
bianca scendere dolcemente e posarsi davanti a me, proprio lì,
a dieci centimetri, senza produrre alcun suono.
Con la voce tremante, gemetti: -Sarà… sarà di una colomba…
- Ero impietrita non distoglievo lo sguardo –
''Si, sicuramente sarà di una colomba...'' sì, sarà di una colomba.-




Silvana Trabanelli abita in provincia di Ferrara. Solare, piena di interessi, scrive e pubblica racconti e poesie. Da visitare il suo blog, "Amor ca' nullo amato (poesia e non)" mentre, per lo scaffale della libreria, si segnala la sua silloge 'Ascoltando il vento', Este edition
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Silloge recensita in literarj

venerdì 10 febbraio 2012

“La stella di Nord”, racconto di Gianna Batistoni (Brigatta), blogger, bibliotecaria in Firenze (27/12/2009)

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Comete, acrilico su tela, di Paolo Favaro

Quando verrà Maestro Gelo? domandano i bambini. Stringeranno nei pugni una cometa? Finché la loro polvere, dal cielo e da terra, non sparga in occhi infantili un lungo ultimo sonno e l'ombra non sia folta di fantasmi di bimbi,nessuna bianca risposta farà eco dalle cime dei tetti. [ Dylan Thomas ]

L'albero di Natale, olio su tela, di Marino Di Fazio

Il cielo era bianco, quasi indistinguibile dal vetro appannato dalla condensa. Fuori era così freddo che di chi passava per strada si vedevano solo gli occhi, umidi nel vento, spuntare dal bordo delle sciarpe. Però, il piccolo Nord decise di uscire alla ricerca di Maestro Gelo. Il Natale era passato senza neve sui tetti e Nord pensava che Maestro Gelo avesse perso la strada. Così, Nord si diresse verso la piazza del paese, dove l'abete era stato addobbato con luci e una stella cometa, attaccata in qualche modo alla sua punta. Nord si ricordava una leggenda, sì forse era una leggenda e non una storia, quella che raccontava di come una stella cometa avesse indicato la strada a tre Re che volevano raggiungere un bambino per portargli qualche dono che non si aspettava. «Chissà» si chiedeva Nord mentre camminava in direzione della piazza, lottando con il vento che gli soffiava contro, «Chissà se questa cometa che abbiamo in paese potrà indicare la strada a Maestro Gelo, che si è perso». Arrivato sotto l'abete di luci, Nord guardò la cometa, che era alta-altissima-lassù sulla sua punta e pensò che se Maestro Gelo finora non l'aveva vista era forse perché non era abbastanza vicina al cielo, perché c'erano dei palazzi intorno alla piazza che erano ben più alti. Così si mise a chiamare «Maestro Gelo! Maestro Gelo! Vedi la cometa?», ma il vento soffiava e fischiava forte, le luci tintinnavano, i rami dell'abete scricchiolavano e Nord ben presto si convinse che Maestro Gelo da lì non l'avrebbe mai sentito. Nord, quindi, decise di dover arrivare anche lui vicino al cielo e sparì in un batter d'occhio sotto le fronde dell'abete, abbracciandosi al tronco e usando i rami per tirarsi sempre più su, sempre più vicino alla stella. Era tanta la foga di salire che neppure sentì lo schianto sotto i sui piedi, poco prima di cominciare a cadere. A cadere insieme alla neve, in un silenzio bianco. Poco prima di chiudere gli occhi nel buio credette di sentire l'eco di una voce fredda nella sua testa che gli rispondeva «Eccomi, Nord... sono arrivato, grazie di avermi fatto trovare la strada...». C'era un fiocco di neve, adesso, sul naso di Nord e un po' di sangue che gli usciva dalla bocca.



La gelata, acquerello, di Teresa Caffarelli

giovedì 9 febbraio 2012

“Spuntera un nuovo giorno e passerò per un camino”, racconto di Mara Depini, ospitato in occasione di un premio a Pistoia (13/12/2009)


Superato il confine i soldati del Reich occuparono le pianure e le terre di Polonia. Giunti ad Oswiecim, dopo aver tolto il diritto alla libertà di quella gente, cambiarono iil nome del paese e da quel giorno fu Auschwitz. Un buon posto, disse il comandante, per realizzare il campo di concentramento dove rinchiudere quei pezzenti
[Foto scattata nel campo principale di Auschwitz, ottobre 2009]

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Domani spunterà di nuovo l'alba.
Un nuovo giorno prenderà vita, tutto intorno.
Nonostante me, e quelli che mi stanno intorno, e quelli che stanno là fuori.
E sarà un altro giorno di lavoro, disumano.
Perché così avranno voluto gli altri, quelli che mi somigliano, ma solo esteriormente. Io non lo avrò desiderato, quel giorno, così come non ho desiderato quelli che già sono venuti. Li avrò subiti, li subirò.
Contro la mia volontà, contro le mie convinzioni.
Perché domani potrebbe essere un giorno diverso, se potessi desiderarlo.
E se dopo averlo desiderato, potessi avverarlo.

Ma qui, in questo campo, di cui ho dovuto imparare il nome, così come ho dovuto imparare il numero tatuato sul mio braccio sinistro, a forza, non posso desiderare nulla. Solo che tutto finisca.
Presto.

E non so neppure se desiderare che finisca perché la mia vita tornerà ad essere quella di prima, o desiderare che finisca perché la vita non sia più.
Perché qui ti fanno desiderare la morte, ogni giorno, ogni minuto, perché tutto questo orrore finisca. Ma io, e forse non solo io, ho deciso di non obbedire più agli ordini. Nel senso che ho deciso di smettere di desiderare la morte.
 
Semplicemente, per dispetto, desidero tornare alla vita.
Quella di prima, prima del campo, delle torture, del lavoro duro, della fame, del freddo, della paura. Prima ancora del ghetto, delle persecuzioni, prima di tutto, ma proprio tutto. Quando ero giovinetto, e libero, e felice, così come lo erano tutti i miei parenti. Fingo che nessuno sia morto, ma che sia solamente in un altro posto, che mi sta aspettando. E più la vita si fa dura, più sono convinto che tutto durerà ancora per poco. 

E allora non sento più il freddo, né la fame,né la paura.
E loro non lo sanno che domani spunterà di nuovo l'alba ed un nuovo giorno prenderà vita, tutto intorno. Ed urleranno contro di me, nella loro lingua che io rifiuto di fare mia, e mi picchieranno, e non mi daranno altro cibo che quella brodaglia maledetta, fatta di niente.
Ma qui ci sarà solo il mio corpo.
Di quello possono farne ciò che vogliono.
Della testa, di ciò che c'è dentro, dei miei pensieri, delle mie convinzioni, della mia dignità non possono impadronirsi.

Non vogliono che li guardi negli occhi. Quando lo faccio mi picchiano per costringermi ad abbassare i miei.
Perché hanno paura di ciò che vi leggono.
E di conseguenza hanno paura di me.
E' questo che mi fa gioire.
Perché alla fine, loro hanno paura.
Ed hanno paura di un sacco di pelle ed ossa come me.

Domani mi portano ai forni.
So già cosa mi aspetta.
Torno libero.
Domani spunterà di nuovo l'erba ed io passerò per il camino.


La premiazione di Mara a Pistoia (foto quotidiano Libertà edizione del 5 dicembre 2009)

Mara Depini di Castel San Giovanni, già più volte “raccontata” ed ospitata in Arzyncampo, ha meritato un nuovo riconoscimento alla 27ª edizione del premio letterario internazionale di narrativa e poesia intitolato a Giorgio La Pira, a Pistoia.

Targa d'argento per il suo racconto Posso andarmene.

Si tratta - spiega - di un racconto ambientato in un campo di concentramento”. Un tema che già in precedenza ha visto l’impegno dell’amica Mara con racconti come Baracca 23, Numeri e dignità oltre a questo poetico e disperato ‘spunterà un nuovo giorno e passerò per un camino’ ripreso dal quotidiano di Piacenza Libertà (edizione del 26 gennaio 2007).

mercoledì 8 febbraio 2012

"Nella luce, tra le stelle, per compiere un disegno tracciato prima delle cose", racconto di Claudio Arzani

Favola piangente
del falco dal becco bianco,
della principessa rapita,
della dea Brigit e dei tritoni dalla coda palmata


[ “Falco”, di Federica Pigmei ]

Il falco lasciò il picco del Monte Capra librandosi maestoso nel cielo.

Proteso oltre le nuvole, ad un passo dal sole. Si sentì padrone delle cose, del cielo, dell'aria, dei monti, delle foreste che sovrastava. Ma la ferita era troppo profonda, più fonda del fondo. Non tentò neppure di volare, chiuse gli occhi e, con le grandi ali distese, si lasciò andare alle correnti. La lama del pugnale era entrata bene a fondo e, ancora, non capiva perché.

Il pellegrino coi riccioli neri che uscivano dal cappuccio.

Lo aveva visto, solo poche ore prima, sul sentiero al passo del Ponticello. Un'andatura lenta, un po’ goffa, come se soffrisse il peso della spada al fianco. Non sapeva perché ma si sentì attratto in modo irrefrenabile. Interruppe il volo e, planando, scese a pochi metri dal pellegrino, accovacciandosi a terra, tra l'erba, in segno di pace, di amicizia.

[ "La femme Tuareg", de Monique Dubois ]

Il pellegrino rimase stupito, immobile a guardare quel falco dal becco bianco che, incredibile, pareva sorridergli. Si avvicinò, guardingo allungò una mano e il falco lasciò lisciare le penne, sbatté le ali, si alzò quel tanto che bastava per salirgli sul braccio. Col becco sfiorò i riccioli neri e rimase tranquillo.

Perché, improvvisamente, quella lama argentea che rifletteva sinistramente il raggio del sole scomponendosi in una stella assassina? Il falco non capì.

Ferito mortalmente, con la carne che bruciava dolore, trovò la forza di volare via, di rifugiarsi sul picco del Monte Capra ad invocare aiuto alle sorelle aquile. Ma il picco era deserto e lui non aveva nemmeno la forza di chiamare, mentre l'azzurro del cielo nei suoi occhi si tingeva d'ombre nere.

Eppure no! No, non sarebbe morto, solo, tra quei sassi; era un falco, padrone delle cose, del cielo, dei monti, delle foreste. Dell’aria. E, nell'aria, sarebbe morto.

Lasciò dunque il picco, librandosi maestoso nel cielo. S'abbandonò alle correnti che lo trasportavano - lui non guardava nemmeno dove -. S'abbandonò alla carezza dell'aria tra le penne del viso, delle ali, sulla ferita umida di sangue. Sparì nel profondo del fondo della Valle Bergaiasca, tra i rami delle piante del bosco senza luce, una rete impenetrabile capace di fermare anche i raggi del sole.

[ "In alta montagna", di Luigi Zago ]

Il pellegrino, molto tempo dopo, giunto nella valle dopo aver attraversato il passo del Ponticello, avanzando guardingo lungo il sentiero nell'ombra del bosco notò macchie di sangue tra l'erba, le foglie e i sassi. Portò la mano alla spada, pronto a difendersi, scostò il cappuccio per non averlo d'intralcio, liberando una cascata di riccioli neri che sembravano immergersi nel viso bianco come il latte.

Solo il silenzio di quel bosco tetro gli rispose. Alzò allora gli occhi verso l'alto, non vide altro che una rete fittissima di rami appuntiti, tanti da nascondere il sole, la vetta del Monte Mangiapane e l'azzurro del cielo.

Un'ultima goccia di sangue scese da quel nulla nero, andò a morire sulla spalla del pellegrino, sfiorando i riccioli neri.

Il sole tramontò, per due volte sorse la luna ad illuminare d'argento le vette e la valle. Dalle acque del fiume delle nevi, alimentate dalla sorgente Rastubi, si alzò un soffio di vento.


Andò dalle fate che, per riposare, erano tornate alla terra, trasformate in salici piangenti lungo il sentiero al limitare del bosco senza luce.

Delicatamente il vento smosse le verdi chiome e sussurrò la storia del falco, perso lassù, nell'intrico dei rami. Le fate piansero e più di tutte pianse Brigit, signora di Pietra Perduca che lassù, tra le stelle, al centro del Drynemeton, il bosco delle querce, il bosco sacro della piana di Travo, aveva unito il destino del pellegrino dai riccioli neri e il sentiero del falco dal becco bianco.

Chiamò a sé uno scoiattolo, gli affidò una foglia verde smeraldo che racchiudeva un alito di vita. Lo scoiattolo scattò attraversando il sentiero, guadando su un ramo spezzato il Rio Cane, tagliando per i campi, attraversando senza farsi osservare Costa Rodi, l’Oratorio di San Giuseppe e su su fino alla Miniera d’Amianto, correndo nella luce del nuovo giorno nascente, in fretta, sempre più in fretta, più in fretta della Nera Signora.

Il falco aveva ormai perso molto sangue ma lassù, nell'intrico dei rami, dolcemente sfiorato dalla coda dello scoiattolo e dalla rugiada della foglia verde smeraldo, riaprì un occhio, tornando ad ammirare il cielo, compiacendosi del ritrovato azzurro.

Le nuvole gli raccontarono che il pellegrino aveva liberato i riccioli neri e finalmente si era riconosciuta la principessa rapita.

Sì, il pellegrino era la principessa rapita tanti anni prima, stordita, imbavagliata, legata, strappata nottetempo dalla stanza nella torre del castello dalle arpie della valle scarlatta.

Costretta in prigionia, adibita ai lavori più pesanti al servizio delle arpie. Finché, quando ormai pensava persa per sempre la vita e la libertà, mentre col secchio andava a prendere l’acqua di fonte in fondo alla corte, il guardiano custode che ne controllava i passi ebbe un malore e cadde a terra, esamine. Lei, la principessa, trattenne il respiro, lasciò il secchio, chiuse gli occhi e rimase immobile, in attesa della punizione per quella pausa non autorizzata.

Nulla. I secondi uno dietro l’altro si susseguirono e non accadde nulla. Nessun richiamo, nessun urlo, nessun fischio a richiamare altri guardiani per punirla.

Nessun sbattere d’ali delle arpie, sempre felici di intervenire, di avventarsi dall’alto sulle schiene degli umani prigionieri, di affondare le unghie uncinate nelle carni rosee degli esseri resi schiavi.

Lentamente, quasi avessero vita propria, le gambe della principessa cominciarono a muovere piccoli passi sempre più veloci, correndo via, lasciando alle spalle la corte, la reggia delle arpie, i ricordi degli anni di prigionia da dimenticare, i campi nei quali per troppo tempo aveva consumato gli anni della sua giovinezza.

[ "Hollside poppies", by Fred Doloresco ]

Fuggita dunque attraverso i campi dei fiori rossi dell'oblio, aveva camminato per due lune intere e quel falco, con quella luce ammaliante negli occhi, gli era parso l'emissario camuffato delle arpie, lo spettro del ritorno nella valle scarlatta.

Lo aveva ferito, per difendersene, per cacciare l'incubo, per non essere di nuovo avvinghiata dalle unghie ad uncino delle gracchianti arpie, ma mentre la lama penetrava tra quelle piume aveva sentito una lacerazione, come se quel pugnale che stringeva nel pugno affondasse profondo nel suo stesso cuore. Stupita da quel dolore non aveva capito, aveva proseguito nel suo cammino, lasciando alle spalle il passo del Ponticello.

[ Dipinto di Milena Crupi ]

Superato il bosco senza luce della Valle Bergaiasca, spaventata e confusa da quel sangue piovuto dall'intrico dei rami delle piante del bosco, passata la costa del Monte Mangiapane, era arrivata attraverso il sentiero delle fate nella Valle Quartè, fermandosi ad ascoltare il dolce lamento dei salici cullati dal soffio del vento.

S'era lasciata andare a quella nenia che sembrava il cantico delle Sirene, la realtà era parsa sfumare, il panorama indefinì, la macchia di sangue sulla spalla prese le fattezze del falco dal becco bianco. E quel falco sorrideva, per quanto sia impossibile ad un falco sorridere, e ancora, proprio come al passo del Ponticello, le sfiorò col becco i riccioli neri.

Il salice più vicino sommosse ondulante la chioma, piegò su se stesso, sparì e, dopo un attimo, lasciò il posto ad una dama fatta di luce. Brigit.

La principessa protese le mani verso l'abbraccio di Brigit, si sentì trascinata nella luce, tra le stelle, per compiere un disegno tracciato prima delle cose. Ma improvvisamente riaprì gli occhi, si ritrasse, riprese correndo il sentiero fuggendo lontano dalle stelle, verso il guado del torrente Perino,  lontano dal sorriso impossibile del falco dal becco bianco, verso la torre dal profilo familiare che ora, finalmente, tornava a vedere a sovrastare l’altra sponda.

[ "The enchanted castle", by Matthijs Maris ]

Alfine la principessa, vestita di sete finissime, si ritrovò al sicuro tra le solide mura del castello d’Erbia e la blusa sporca di fango, di polvere e del sangue del falco è finita in fondo ad una cassapanca chiusa con un pesante catenaccio.

Nella valle, all'orizzonte, sopra la vetta  della Parcellara illuminata dal sole, si alza un destriero alato. Porta con sé un elfo delle pianure, un elfo guaritore. Tra il groviglio dei rami del bosco senza luce spunta una rosa dai petali neri e il gambo bianco come il latte, ondeggia sotto la spinta delicata del vento, sfiorando le piume del falco.

Ci vorrà tempo, ma il falco tornerà a volare.

Brigit, dea della fertilità e della scienza della guarigione, è tornata alla sua dimora, a Pietra Perduca. Nell’acque piovane delle quattro vasche sacre s’agitano i tritoni, muovono freneticamente la lunga coda palmata, a ricordare alla loro signora che è ormai l’ora del pasto.


Nella luce, tra le stelle
è stato pubblicato da Libertà, quotidiano di Piacenza
e, nel 2009, inserito nel libro 
"Vietato attraversare ..."
Qui viene proposto in una versione del 2008 


martedì 7 febbraio 2012

Piacenza: “L’obiettivo del regime", volume fotografico di Fabrizio Achilli [con, in coda, di mio padre in camicia nera]


Due eventi con i quali di recente sono venuto a contatto che riportano al triste periodo del ventennio: un volume che fa seguito ad una mostra fotografica riferita al periodo dal 1923 al 1940 (“l’obiettivo del regime - fascismo e rappresentazione a Piacenza”) e una seconda mostra promossa dalla Banca di Piacenza con interessante catalogo dedicata a Osvaldo Barbieri, in arte Bot, pittore futurista, piacentino, tra i più fervidi sostenitori del fascismo e soprattutto cantore dell’opportunità dell’entrata in guerra.



Il primo: due studi fotografici piacentini, Croce e Manzotti, hanno unito i loro archivi e, con il sostegno di un editore locale e di alcuni autorevoli studiosi (tra i quali in primis Maurizio Cavalloni e Fabrizio Achilli, presidente a Piacenza dell’Istituto di Storia della Resistenza) hanno confezionato una mostra (che purtroppo mi son perso) e un volume di indubbio interesse (e di ragguardevole costo: 45 euro).



Sfilano personaggi nazionali e locali in visita alla città padana,



la macchina fotografica immortala i cantieri vanto di un fascismo che produce ed ottiene consenso perché

il fatto è che il Fascismo si vede …

(frase del gerarca Bottai),



ci sono le grandi adunate in città (oceaniche) e nei principali centri della provincia, a dimostrazione che, di riffa o di raffa, voluto o subito che fosse, il fascismo fu un grande fenomeno di massa,



immancabili le giornate della ginnastica, le colonie estive per i bambini,

fino alla militarizzazione della gioventù,

con i balilla sull'attenti apparentemente orgogliosi del loro moschetto

e le maestrine della scuola materna fotografate nel saluto romano

(invero non per tutte così palesemente convinto,

qualcuna par limitarsi ad uno stentato "ciao"),



infine la voglia della guerra, i muscoli che si scaldano,

Mussolini che ritorna all’Arsenale Militare cittadino,

lo storico quotidiano locale (“Libertà”, naturalmente ribattezzato per il ventennio “La scure”) conclude il periodo ed il volume

con la riproduzione della pagina annunciante la resa della Francia:

l’avanzata del nazismo sembra inarrestabile e il Duce teme di perdere il treno dell’espansione;

inizia un’altra storia

(non a caso il volume si fregia di essere il primo di una serie ancora da scoprire).






Pochi mesi fa mio padre ha spento la torta con le sue prime ottanta candeline. Tra i suoi tanti ricordi c’è una foto nella quale, credo studentello nei primi anni delle superiori (che dovrà interrompere per il venire meno dei collegamenti con la città capoluogo dato l’infelice evolvere del conflitto), è inquadrato in classe con tanto di impeccabile camicia nera.



Bisognava pur vivere”, mi raccontava quando ero bambino, “e l’unico modo per non essere emarginati era indossare a scuola la camicia nera così il nonno iscrisse tutti noi fratelli e sorelle”.




Lui, invece, mio nonno, lui no.

Vecchio socialista, lavorava in un forno, a fare il pane. Tra i suoi incarichi c’era quello di portare il pane bianco a Sua Eccellenza il Podestà. Ogni tanto, di solito all’uscita dall’osteria (la vecchia cooperativa di consumo socialista), i fascisti gli davano una “ripassata”, tanto per precisare che non avevano dimenticato i suoi orientamenti. All’indomani, tutto pesto, si presentava dal Podestà con una pagnotta di pane nero.



Negli anni bui della guerra ogni tanto inforcava la bicicletta e spariva per qualche giorno (notti comprese). Mio padre racconta che andava nelle campagne e nei paesi limitrofi a portare i fogli dei giornali clandestini, del sindacato e del partito. Forse invero non era tutta una questione di opposizione al fascismo, di lotta dura e di Resistenza, forse dietro quelle sparizioni c’era anche qualche storia di cuore, perché spesso i babbi nel corso della vita incontrano una donna diversa dalla mamma e di quella donna s’innamorano. Ma alla fine, mi raccontava mia nonna, “il mio uomo tornava nel mio letto”.



Forse anche alle spalle di quelle notti quando non rientrava dall’osteria non sempre il motivo era la violenza delle odiate camicie nere: a volte mio padre, superata l’ultima ora  ammissibile, in quanto maggiore dei figli maschi, usciva a cercarlo. Talvolta lo trovava per strada, dolorante e pesto per via dei vigliacchi fascisti (che agivano sempre in corpose squadre). Talvolta invece lo trovava … perso, addormentato in corposa banda con altri compagni d'idee e sodali di bisboccia, spesso ormai tutti nello stesso stato appoggiati al tavolo dell’osteria per il troppo vino e, amorevolmente, come solo un figlio sa fare, lo aiutava a ritornare a casa.




Un nonno insomma “proletario”, morto quando il suo primo nipote (io) faceva un anno e lui 58 (“beh, in fondo era vecchio”, ha sempre detto mio padre fin verso i 50 anni; poi non è più tornato sull’argomento fin quando, qualche anno fa, ha finalmente realizzato che i tempi erano cambiati, che l’età media di aspettativa di vita si è alzata, che insomma lui, mio padre, i 58 li ha ormai brillantemente superati fermo restando che “sia ben chiaro, fatti 80 anni ancora non sono certo vecchio”).



Un nonno "proletario", dicevo, nel senso che l’ho sempre pensato un uomo con i suoi limiti, i difetti, le contraddizioni di chi ha condotto con dignità una vita basata sul lavoro. Non un eroe, ma una persona che ha attraversato le contraddizioni della sua epoca (e le contraddizioni della vita umana) mantenendo la coerenza ideale possibile, cioè una coerenza contestualmente parallela alle debolezze che sono proprie dell’essere uomini, ma, nello stesso tempo, ponendo innanzi a tutto la garanzia di un presente e di un futuro ai suoi figli.



Anche se quel presente e quel futuro, imposti dalla dittatura, non erano il presente ed il futuro che lui avrebbe voluto.



Per questo mio padre, i suoi fratelli, le sue sorelle si ritrovarono, bambini, a scuola con indosso la camicia che mai e poi mai, invece, avrebbe indossato il loro padre.




Il racconto della memoria si conclude nel 1946.



Si vota per la Costituente, il fascismo è caduto, il Re finalmente mandato a casa. Francesco (mio nonno) attraversa la piazza del paese diretto verso il seggio elettorale. A sinistra tiene per mano Fabio (mio padre), a destra Olga (mia zia) ed è chiaro come voteranno.



All’occhiello della giacca di Francesco,

che tutta la piazza vede,

 che soprattutto vedono quelli che la tessera del Partito Fascista

l’avevano avuta non per bisogno ma per libera scelta,

all’occhiello della giacca di mio nonno Francesco

mentre attraversa la piazza con i suoi figli per mano diretti al seggio elettorale,

fa mostra di sé uno sgargiante garofano rosso.



E il Partito Socialista di Unità Proletaria, morta e sepolta la belva Fascista, in quel 1946 uscirà dai seggi come primo partito della sinistra, superando anche i compagni del P.C.I., quelli della scissione di Livorno del ’21.

lunedì 6 febbraio 2012

“La strada” [ racconto in prima persona dedicato a ... una notte in tono argenteo ] di Claudio Arzani

Strada lunga e deserta, di Dino Barbieri

Una strada secondaria, che unisce la periferia della città alle prime pendici collinari tra sinuose curve, filari di piante, canali d’irrigazione, un paese importante, diverse fattorie.
Ai margini di quella strada siamo diventati adulti con Giuliana, poi i nostri errori hanno voluto si prendessero sentieri diversi. Ma la strada è rimasta nella mia vita: quando si profilava un bivio spesso è capitato di tornare lungo quella striscia d’asfalto, magari all’imbrunire guidando verso l’infinito. Oppure nella nebbia, nel mondo immerso nell’ovatta del grigio che tutto cancella.
Anche quella sera l’auto indirizzava i fari verso i primi chilometri, il rettilineo fino alla casa agricola che costituisce il bivio per l’unico paese di rilievo. Cullato dai pensieri in bilico tra passato e domani sconosciuto, mi sono fermato in uno spiazzo.
No, non avevamo fatto l’amore, io e Giuliana, in quel punto. Da lì bisognava lasciare la strada, prendere a destra, superare una cava di ghiaia e s’arrivava nei pressi del fiume, in una boschina di zona golenale. Era poetico, in quel punto, con lo scorrere dell’acqua.
Ricordi lontani, di un’altra vita, passata.
Il presente era quella notte di luna, con la campagna illuminata d’un tono argenteo. Camminavo lungo il ciglio, badando a non scivolare nel canale d’irrigazione, con il cuore ad inseguire interrogativi.
Non c’era un motivo per cui dovessi fermarmi in quel punto, non c’era motivo per cui dovessi alzare gli occhi verso l’altra parte della strada. Nel buio la luna sembrava illuminare proprio quei due giunchi. Una brezza leggera li avvolse, uno dei due chinò leggermente verso l’altro, fu come se le foglie dell’uno prendessero l’altre per mano.
La strada aveva parlato: sì, quella donna, conosciuta poche settimane prima …


Un “gioco” datato gennaio 2008 su invito di Barbara Garlaschelli: scrivere un racconto breve, contenuto nello spazio di una pagina dattiloscritta, riferito ad un fatto reale oppure ad una storia di fantasia ma comunque scritto in prima persona. Così nasce “la strada” che, nella sua prima versione, è appunto pubblicato nel blog di Barbara.

Tramonto nei boschi, di Dino Barbieri