mercoledì 8 febbraio 2012

"Nella luce, tra le stelle, per compiere un disegno tracciato prima delle cose", racconto di Claudio Arzani

Favola piangente
del falco dal becco bianco,
della principessa rapita,
della dea Brigit e dei tritoni dalla coda palmata


[ “Falco”, di Federica Pigmei ]

Il falco lasciò il picco del Monte Capra librandosi maestoso nel cielo.

Proteso oltre le nuvole, ad un passo dal sole. Si sentì padrone delle cose, del cielo, dell'aria, dei monti, delle foreste che sovrastava. Ma la ferita era troppo profonda, più fonda del fondo. Non tentò neppure di volare, chiuse gli occhi e, con le grandi ali distese, si lasciò andare alle correnti. La lama del pugnale era entrata bene a fondo e, ancora, non capiva perché.

Il pellegrino coi riccioli neri che uscivano dal cappuccio.

Lo aveva visto, solo poche ore prima, sul sentiero al passo del Ponticello. Un'andatura lenta, un po’ goffa, come se soffrisse il peso della spada al fianco. Non sapeva perché ma si sentì attratto in modo irrefrenabile. Interruppe il volo e, planando, scese a pochi metri dal pellegrino, accovacciandosi a terra, tra l'erba, in segno di pace, di amicizia.

[ "La femme Tuareg", de Monique Dubois ]

Il pellegrino rimase stupito, immobile a guardare quel falco dal becco bianco che, incredibile, pareva sorridergli. Si avvicinò, guardingo allungò una mano e il falco lasciò lisciare le penne, sbatté le ali, si alzò quel tanto che bastava per salirgli sul braccio. Col becco sfiorò i riccioli neri e rimase tranquillo.

Perché, improvvisamente, quella lama argentea che rifletteva sinistramente il raggio del sole scomponendosi in una stella assassina? Il falco non capì.

Ferito mortalmente, con la carne che bruciava dolore, trovò la forza di volare via, di rifugiarsi sul picco del Monte Capra ad invocare aiuto alle sorelle aquile. Ma il picco era deserto e lui non aveva nemmeno la forza di chiamare, mentre l'azzurro del cielo nei suoi occhi si tingeva d'ombre nere.

Eppure no! No, non sarebbe morto, solo, tra quei sassi; era un falco, padrone delle cose, del cielo, dei monti, delle foreste. Dell’aria. E, nell'aria, sarebbe morto.

Lasciò dunque il picco, librandosi maestoso nel cielo. S'abbandonò alle correnti che lo trasportavano - lui non guardava nemmeno dove -. S'abbandonò alla carezza dell'aria tra le penne del viso, delle ali, sulla ferita umida di sangue. Sparì nel profondo del fondo della Valle Bergaiasca, tra i rami delle piante del bosco senza luce, una rete impenetrabile capace di fermare anche i raggi del sole.

[ "In alta montagna", di Luigi Zago ]

Il pellegrino, molto tempo dopo, giunto nella valle dopo aver attraversato il passo del Ponticello, avanzando guardingo lungo il sentiero nell'ombra del bosco notò macchie di sangue tra l'erba, le foglie e i sassi. Portò la mano alla spada, pronto a difendersi, scostò il cappuccio per non averlo d'intralcio, liberando una cascata di riccioli neri che sembravano immergersi nel viso bianco come il latte.

Solo il silenzio di quel bosco tetro gli rispose. Alzò allora gli occhi verso l'alto, non vide altro che una rete fittissima di rami appuntiti, tanti da nascondere il sole, la vetta del Monte Mangiapane e l'azzurro del cielo.

Un'ultima goccia di sangue scese da quel nulla nero, andò a morire sulla spalla del pellegrino, sfiorando i riccioli neri.

Il sole tramontò, per due volte sorse la luna ad illuminare d'argento le vette e la valle. Dalle acque del fiume delle nevi, alimentate dalla sorgente Rastubi, si alzò un soffio di vento.


Andò dalle fate che, per riposare, erano tornate alla terra, trasformate in salici piangenti lungo il sentiero al limitare del bosco senza luce.

Delicatamente il vento smosse le verdi chiome e sussurrò la storia del falco, perso lassù, nell'intrico dei rami. Le fate piansero e più di tutte pianse Brigit, signora di Pietra Perduca che lassù, tra le stelle, al centro del Drynemeton, il bosco delle querce, il bosco sacro della piana di Travo, aveva unito il destino del pellegrino dai riccioli neri e il sentiero del falco dal becco bianco.

Chiamò a sé uno scoiattolo, gli affidò una foglia verde smeraldo che racchiudeva un alito di vita. Lo scoiattolo scattò attraversando il sentiero, guadando su un ramo spezzato il Rio Cane, tagliando per i campi, attraversando senza farsi osservare Costa Rodi, l’Oratorio di San Giuseppe e su su fino alla Miniera d’Amianto, correndo nella luce del nuovo giorno nascente, in fretta, sempre più in fretta, più in fretta della Nera Signora.

Il falco aveva ormai perso molto sangue ma lassù, nell'intrico dei rami, dolcemente sfiorato dalla coda dello scoiattolo e dalla rugiada della foglia verde smeraldo, riaprì un occhio, tornando ad ammirare il cielo, compiacendosi del ritrovato azzurro.

Le nuvole gli raccontarono che il pellegrino aveva liberato i riccioli neri e finalmente si era riconosciuta la principessa rapita.

Sì, il pellegrino era la principessa rapita tanti anni prima, stordita, imbavagliata, legata, strappata nottetempo dalla stanza nella torre del castello dalle arpie della valle scarlatta.

Costretta in prigionia, adibita ai lavori più pesanti al servizio delle arpie. Finché, quando ormai pensava persa per sempre la vita e la libertà, mentre col secchio andava a prendere l’acqua di fonte in fondo alla corte, il guardiano custode che ne controllava i passi ebbe un malore e cadde a terra, esamine. Lei, la principessa, trattenne il respiro, lasciò il secchio, chiuse gli occhi e rimase immobile, in attesa della punizione per quella pausa non autorizzata.

Nulla. I secondi uno dietro l’altro si susseguirono e non accadde nulla. Nessun richiamo, nessun urlo, nessun fischio a richiamare altri guardiani per punirla.

Nessun sbattere d’ali delle arpie, sempre felici di intervenire, di avventarsi dall’alto sulle schiene degli umani prigionieri, di affondare le unghie uncinate nelle carni rosee degli esseri resi schiavi.

Lentamente, quasi avessero vita propria, le gambe della principessa cominciarono a muovere piccoli passi sempre più veloci, correndo via, lasciando alle spalle la corte, la reggia delle arpie, i ricordi degli anni di prigionia da dimenticare, i campi nei quali per troppo tempo aveva consumato gli anni della sua giovinezza.

[ "Hollside poppies", by Fred Doloresco ]

Fuggita dunque attraverso i campi dei fiori rossi dell'oblio, aveva camminato per due lune intere e quel falco, con quella luce ammaliante negli occhi, gli era parso l'emissario camuffato delle arpie, lo spettro del ritorno nella valle scarlatta.

Lo aveva ferito, per difendersene, per cacciare l'incubo, per non essere di nuovo avvinghiata dalle unghie ad uncino delle gracchianti arpie, ma mentre la lama penetrava tra quelle piume aveva sentito una lacerazione, come se quel pugnale che stringeva nel pugno affondasse profondo nel suo stesso cuore. Stupita da quel dolore non aveva capito, aveva proseguito nel suo cammino, lasciando alle spalle il passo del Ponticello.

[ Dipinto di Milena Crupi ]

Superato il bosco senza luce della Valle Bergaiasca, spaventata e confusa da quel sangue piovuto dall'intrico dei rami delle piante del bosco, passata la costa del Monte Mangiapane, era arrivata attraverso il sentiero delle fate nella Valle Quartè, fermandosi ad ascoltare il dolce lamento dei salici cullati dal soffio del vento.

S'era lasciata andare a quella nenia che sembrava il cantico delle Sirene, la realtà era parsa sfumare, il panorama indefinì, la macchia di sangue sulla spalla prese le fattezze del falco dal becco bianco. E quel falco sorrideva, per quanto sia impossibile ad un falco sorridere, e ancora, proprio come al passo del Ponticello, le sfiorò col becco i riccioli neri.

Il salice più vicino sommosse ondulante la chioma, piegò su se stesso, sparì e, dopo un attimo, lasciò il posto ad una dama fatta di luce. Brigit.

La principessa protese le mani verso l'abbraccio di Brigit, si sentì trascinata nella luce, tra le stelle, per compiere un disegno tracciato prima delle cose. Ma improvvisamente riaprì gli occhi, si ritrasse, riprese correndo il sentiero fuggendo lontano dalle stelle, verso il guado del torrente Perino,  lontano dal sorriso impossibile del falco dal becco bianco, verso la torre dal profilo familiare che ora, finalmente, tornava a vedere a sovrastare l’altra sponda.

[ "The enchanted castle", by Matthijs Maris ]

Alfine la principessa, vestita di sete finissime, si ritrovò al sicuro tra le solide mura del castello d’Erbia e la blusa sporca di fango, di polvere e del sangue del falco è finita in fondo ad una cassapanca chiusa con un pesante catenaccio.

Nella valle, all'orizzonte, sopra la vetta  della Parcellara illuminata dal sole, si alza un destriero alato. Porta con sé un elfo delle pianure, un elfo guaritore. Tra il groviglio dei rami del bosco senza luce spunta una rosa dai petali neri e il gambo bianco come il latte, ondeggia sotto la spinta delicata del vento, sfiorando le piume del falco.

Ci vorrà tempo, ma il falco tornerà a volare.

Brigit, dea della fertilità e della scienza della guarigione, è tornata alla sua dimora, a Pietra Perduca. Nell’acque piovane delle quattro vasche sacre s’agitano i tritoni, muovono freneticamente la lunga coda palmata, a ricordare alla loro signora che è ormai l’ora del pasto.


Nella luce, tra le stelle
è stato pubblicato da Libertà, quotidiano di Piacenza
e, nel 2009, inserito nel libro 
"Vietato attraversare ..."
Qui viene proposto in una versione del 2008 


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