martedì 31 gennaio 2012

Specchio, specchio d’eteree brame, più bella non v'è nel reame (storie di elfi, racconti di primule da Lucia, fata di fiori)



Omaggio a Lucia Volpi e a Daniele, marito fotografo
E se la vuoi conoscere accompagnandola nei suoi viaggi, clicca qui



I fiori delle fate


Sapete che la primula annuncia la bella stagione e che chi la mangia riesce a vedere le fate?
Io sinceramente non l’ho ancora assaggiata, ma più di una volta ne sono stata tentata.
Quella che ora vi racconto è una leggenda, come tale, non si sa quanto sia reale, ma è piacevole lasciarsi trasportare in altri mondi, e questa ci trasporta nel mondo degli elfi.
Ci sono due tipi di primule e la leggenda parla di quella che si trova nei nostri prati; ha il capo eretto e si chiama vulgaris.
Molto tempo fa gli uomini e gli esseri fatati vivevano sulla terra, ma ognuno per conto suo.
La storia ha inizio in un prato, nei primi giorni di sole dopo un inverno lungo e cupo che aveva rattristato un po’ tutti. Il re degli elfi, affacciandosi da una delle sue torri, vide sulla la terra, ancor secca per il freddo invernale, quei primi annunci di sole e venne colto dal desiderio di far visita alla bellezza del mondo degli uomini. Proprio da quelle parti, in un castello su una collina, viveva un nobile re anziano e superbo e con lui viveva la sua giovane sposa, un po' intimorita da quel marito così altero, un po' melanconica per la solitudine alla quale la costringeva la gelosia del re.
Quel primo giorno di sole, anche la giovane regina attratta dai raggi di luce e dai fiori spuntati così numerosi nei prati, indossò un abito di seta, verde come l’erba, scese le scale e corse, felice come una bimba, verso la primavera.
Le primule emanavano un profumo leggero,
il cuore del re degli elfi, anche se abituato alla bellezza del suo mondo e della sua gente, quando vide quella giovane donna coi capelli lunghi e sciolti, del colore dell’oro, danzare in quel prato di primule gialle con l’abito di seta verde fu preso all’istante e per sempre, si avvicinò alla splendida giovane, promettendole che un giorno l'avrebbe condotta nel suo mondo. Lei, leggendogli nel cuore il sorriso e la dolcezza, si abbandonò a quella promessa sconosciuta di gioia.
La giovane però, era a sua volta sposa di re, e non poteva allontanarsi dal proprio mondo senza il consenso del suo signore.
Passo del tempo e un giorno il re fatato presentandosi alla corte dell’altro re lo sfidò ad un gioco che si giocava in quei tempi. Le prime due vittorie furono del re terreno che imbaldanzito sfidò l’elfo ad una terza partita lasciandogli la scelta della posta.
"Quello che il vincitore chiederà, sarà suo". Disse sorridendo il re degli elfi, ed il re umano - accecato dall'avidità accettò la scommessa.
 Naturalmente vinse l'essere fatato, che espresse il suo desiderio: voleva Lei, la bellissima sposa del re.
Il re degli uomini si accostò alla sposa, stringendo la spada, e tutti i suoi cavalieri con lui, ma il re degli elfi sguainata la sua spada prese ad avanzare impassibile, mentre lui passava la schiera si apriva magicamente, raggiunse la donna e la cinse con il braccio che non impugnava l'arma. I due si sollevarono da terra, sempre più in alto, fino a sembrare due uccelli, forse due cigni, che scomparvero nel sole.
Raggiunsero così la luminosa terra del sovrano fatato, ed è a causa di ciò che scoppiò la prima guerra tra gli uomini ed il popolo degli elfi, il cui re, però, non abbandonò mai la sua sposa mortale.
Si dice che ancora oggi, talvolta, nei primi giorni di sole dopo l’inverno, il re degli elfi e la sua sposa vengano sulla terra a raccogliere le primule dai prati, e sarebbe questo il motivo per cui questi fiori scompaiono così rapidamente dai campi. Qualcuno racconta anche di avere intravisto la sagoma di due esseri, fatati, o forse erano solo due uccelli che volavano in coppia.
Questo fiore annuncia il perenne rinnovarsi della natura e per questo motivo è considerato di buon augurio.
Nel mondo delle fate, si dice che abbia un potere unico, quello di rendere visibile l’invisibile. Ecco perché mangiare le primule è il metodo più sicuro per vedere le fate.




La leggenda della primula vulgaris è stata raccontata da Lucia nel suo blog la domenica 29 marzo (2009)
Naturalmente di Daniele la fotografia, scattata in quei giorni di pioggia 



lunedì 30 gennaio 2012

“Aspettando gli squali”, anteprima della raccolta di racconti di Giuseppe Merico, in libreria a settembre (2009), Coniglio editore

Water drops, by Paolo Curto
Arrivano gli squali, arrivano lentamente, non hanno fretta. C’è della torta in frigo, ne è avanzata, la festa è stata un macello e tu non c’eri, ho cercato le tue spalle, ma tu non c’eri.
La temperatura si è alzata nell’Adriatico, arriveranno…
Marisa era ubriaca e il suo tipo l’ha picchiata, l’hanno visto tutti, io mi sarei sotterrata, dopo hanno continuato ad abbracciarsi come se nulla fosse accaduto.
Ho addosso il tuo maglione, profuma di dopobarba.
Nessuno potra più farsi il bagno a Lecce a Rimini a Palermo.
Io non ti chiamo, non ti chiamerò, ma se torni, se torni c’è della torta in frigo, ne è avanzata…
Ci credi? Arrivano…


Giuseppe alla Fiera del libro di Torino, 2008
Foto reperita in facebook

Giuseppe Merico, bolognese, 34 anni compiuti, single, buddista, scrittore: ha pubblicato una prima raccolta di racconti, “Dita amputate con fedi nuziali” con Giraldi editore di Bologna.
Redattore della rivista argo (www.argoblog.wordpress.com), in attesa di pubblicazione di “Aspettando gli squali”, nuova raccolta in libreria da settembre (era il 2009, ndr) per i tipi della Coniglio editore di Roma. In una parola: nell’attesa passiamo una vacanza tranquilla al mare, si nuota senza pericoli. Ma a settembre, a settembre arrivano …


domenica 29 gennaio 2012

“Albaluna” (parte 1), racconto breve di Gianna Brigatta, bibliotecaria in Firenze, raffinata blogger di classe


Era l'ora del crepuscolo. La luce e il buio si incontravano su una linea di confine che dava l’impressione d’essere un territorio più vasto; un’intersezione dove le caratteristiche non si fondono. Come nei quadri di Caravaggio. Ci sono creature che vivono solo di notte e si dicono animali notturni. Altre creature vivono, invece, solo di giorno e di notte dormono per recuperare energia vitale, chi con la testa sul cuscino, chi con il capo sotto l’ala, chi come può. Ci sono poi strani esseri della cui esistenza ci si accorge solo al crepuscolo, strani ibridi di creature diurne e notturne in cui le caratteristiche non si fondono e restano agli occhi di tutti, prevalentemente, strani esseri. Lei usciva quando il giardino di casa cominciava a coprirsi da una luce polverosa che trasformava velocemente i fiori e le cose in qualcosa dal contorno sempre meno definito, ombre tridimensionali sempre più scure nello spegnersi della luce.
Lei era un drappo di seta chiara che il sole ingiallisce e consuma. Lei aveva dentro di sé un'armonia che nessuno poteva ascoltare, come uno spartito senza chiave musicale. Lei era un dipinto dai mille colori in una stanza buia. Lei aveva un nome che portava come il titolo di una storia, si chiamava Albaluna.


“Albaluna” (parte 2), racconto di Gianna Batistoni (Brigatta)

Gianna Batistoni (Brigatta), Daisy (della serie "Dame di fiori")


Albaluna era una bambina dai capelli del colore dell'alba, la pelle chiara del volto era fine e trasparente; era una bambola di carta velina, una bambola fragile con cui non gioca nessuno per la paura che possa frantumarsi al primo tocco, trasformandosi in mille coriandoli che anche un vento leggero potrebbe portare lontano. Gli occhi avevano il colore di una piccola lacrima che riflette il cielo e il leggero strabismo era ben nascosto da ciglia bianche e folte.

La stanza dove Albaluna passava gran parte della giornata aveva una grande finestra che veniva aperta soltanto quando la bambina era altrove, la luce in sua presenza aveva un'origine esclusivamente artificiale e si diffondeva tenue dalle tante lampade che la nonna aveva cominciato a collezionare da quando Albaluna era stata riconosciuta fotofobica. La nonna di Albaluna aveva avuto una sorella albina che quando usciva doveva coprirsi per difendersi dalla luce del sole con grandi occhiali scuri e che l'intero paese, piuttosto piccolo in qualunque direzione lo si percorresse, aveva preso ben presto a additare come fosse un fenomeno da baraccone. Così Albaluna, che era stata affidata alla nonna fin da piccola per una lunga serie di sfortunati eventi, era stata cresciuta e custodita fra le mura di casa, in quelle stanze dove il sole non entrava da anni per più di mezz'ora al giorno e luce era fatta solo grazie agli interruttori.



Albaluna riceveva la sola visita di una maestra che nel pomeriggio andava a trovarla per seguire la sua istruzione, e, è facile fare il conto, la maestra era l'unica persona che Albaluna conosceva oltre alla nonna e a qualche vecchia zia. Albaluna non aveva mai visto bambini e guardandosi allo specchio si era fatta la strana idea che la razza umana cambiasse colore crescendo, che i bambini fossero piccoli frutti acerbi e che, passato il tempo necessario alla maturazione, anche lei da grande avrebbe avuto lunghi capelli castani come quelli della maestra. Nessuno si era mai preso il compito di toglierle questa convinzione, neppure la maestra, nessuno le aveva mai raccontato la realtà della faccenda, dicendole che i bambini non maturano e che la specie umana non ha un unico colore. Che i bambini, gli uomini e le donne sono tutti uguali solo in quanto bambini, uomini e donne. Che l'uguaglianza si misura sulla parità e sul rispetto dei diritti e della dignità e che il colore è solo un elemento che arricchisce la bellezza della natura. Che la luce, poi, non dovrebbe far paura a nessuno, poiché la luce è bellezza perché contiene tutti i colori del mondo. Che anche l'alba e la luna hanno un colore e una luce e che anche lei, Albaluna, aveva il suo e che per nessun motivo al mondo avrebbe dovuto sperare di cambiarlo, perché con il suo colore avrebbe anche cambiato la sua luce.



Poi un giorno accadde che, all'arrivo della maestra, Albaluna vedesse qualcosa di più piccolo che la seguiva nel corridoio, mentre la donna proseguiva per andare incontro ai saluti della nonna, superando la stanza delle luci in alabastro dove lei l'aspettava. Qualcosa di più piccolo si fermò sull'entrata della stanza e guardò Albaluna dritto negli occhi e con la bocca spalancata di un pesciolino fuori dall'acqua sputò fuori una vocina bassa da paura che si alzò soltanto sull'ultima parola: «E tu chi sei, un FANTASMA?». Albaluna gli fece quasi coro «E tu chi sei?», già rispondendo a se stessa tra mille pensieri che forse quello era un adulto molto piccolo o un bambino che aveva già cambiato colore. Due pesciolini si erano incontrati fuori dall'acqua, perché acqua, lì nella stanza delle luci in alabastro, non c'era. «Mi chiamo Bruno e sono un bambino», disse lui. «Io sono Albaluna», disse lei un po' di tempo dopo. Giusto il tempo che un pesciolino impiega per imparare a parlare. Bruno se ne andò presto insieme alla maestra, che quel giorno neppure fece la sua lezione. La nonna li accompagnò alla porta e quando tornò nella stanza Albaluna pensò che fuori doveva fare un gran freddo, perché la nonna tremava. La lezione della maestra non c'era stata, o forse sì. Albaluna ora sapeva che esistevano bambini di un altro colore e che era bello guardarsi negli occhi tra bambini, perché sembra di capirsi senza dire niente. Dopo quella sera, la maestra tornò, ma sempre da sola. E Albaluna da allora pensava spesso a Bruno e gli parlava come se avesse accanto un amico invisibile, ma non immaginario. Bruno era un amico invisibile lì nelle stanze della grande casa della nonna, ma per renderlo visibile, pensò un giorno Albaluna, non si doveva poi andare troppo lontano.



Era dunque l'ora del crepuscolo e Albaluna imboccò il corridoio buio fino al portone che si apriva sul giardino. Fu la nonna ad aprirle la porta. Le ombre scese da poco sul giardino avevano aperto la finestra ai suoi profumi, Albaluna salutò le rose che il caldo della giornata aveva sgualcito e poi uscì dal cancello, che non aveva mai varcato da sola prima di allora.
«Andiamo, Bruno non deve essere troppo lontano da qui», disse Albaluna a se stessa come un’esploratrice che deve trovare il coraggio di fare il primo passo verso un luogo sconosciuto in cui però è sicura di trovare un grande tesoro. La strada verso il paese era dritta e costeggiava il bosco, quando cominciò a calare il buio Albaluna si accorse che il coraggio restava qualche passo indietro. La notte che ormai riempiva tutto quello che le stava intorno, poiché intorno tutto era nero e irriconoscibile nell'assenza di luce, la faceva procedere con cautela. E la faceva pensare. Era una notte senza luna e le stelle erano troppo lontane per illuminarle ogni mondo, esterno o interiore che fosse. Eppure, se qualcuno avesse potuto essere lì per vederla, si sarebbe accorto che Albaluna aveva una luce propria, era un'ombra più chiara sul bordo dell'asfalto e gli occhi le brillavano come se due stelle le fossero scese sul viso, tra la fronte e le guance, ai lati del naso. Da qualche parte doveva esserci la strada che percorrono le macchine, dove di notte si snodano e si annodano lunghe stelle filanti di fari soffiate dalla velocità. La strada, dove c'erano le luci colorate delle insegne dei negozi che ti chiamano a mangiare i gelati, a comprarti scarpe e abiti nuovi, a entrare nei cinema e a trovare il rumore di tazze e bicchieri nei bar. Anche la casa di Bruno doveva avere una luce che l'avrebbe chiamata ad entrare. Una luce da sbirciare dalla finestra, la luce di una famiglia che consuma la cena intorno a un tavolo mentre in un angolo brilla una tv accesa. La luce di una maestra in pantofole che legge un libro e di Bruno che gioca sul divano. Una luce che si spegne solo prima di dormire. Invece, Albaluna adesso sentiva la luce di un cuore sempre più piccolo che batteva forte, una luce debole, lontana quasi quanto le stelle. Dentro di lei scorreva, più che il sangue, la paura.



Finale



Il malessere che il buio le dava era diverso dal dolore fisico che le procurava la luce abbagliante del giorno. Era il malessere dell’ignoto. La luce dona visibilità. La luce fa conoscenza. Se ci fosse stato anche soltanto il chiarore della luna a illuminare il suo cammino, Albaluna non avrebbe perso la determinazione che sentiva quando era uscita. Ora, invece, si chiedeva «Dove sto andando», «Quanto è lontano Bruno da qui», «Quanto dovrò camminare ancora» e, infine, «Perché non sono rimasta nel mio giardino?» e «Perché non mi è bastato stare da sola con le rose?».



Poi, quasi per incanto sembrò che scendesse una stella dal cielo per arrivare davanti al naso di Albaluna. Ma non era una stella. Era sicuramente un incanto. Era una lucciola, che Albaluna cominciò a seguire, prima quasi correndo, poi correndo e ridendo insieme al suo cuore che non batteva più di paura. E la lucciola fu la sua guida, prima verso la strada dove si rincorrevano i fari e le insegne coloravano finalmente la notte, che non era più buia, poi verso una casa che aveva l’entrata illuminata e una luce da sbirciare dalla finestra, la luce di una famiglia che consuma la cena intorno a un tavolo mentre in un angolo brilla una tv accesa. La luce di una maestra in pantofole che legge un libro e di Bruno che gioca sul divano. 

C’era il nome della maestra nella luce bianca del campanello che Albaluna arrivò a suonare mettendosi in punta di piedi. Quando la porta si aprì, l’accolsero stupore e abbracci. E quando la luce si spense, nella camera di Bruno, si accese un soffitto di stelle fosforescenti molto più vicine di quelle che stavano fuori nel cielo. Era arrivata l’ora di dormire e di accendere la luce bellissima dei sogni di due bambini che non avrebbero smesso di giocare insieme mai più, lì sotto le stelle fosforescenti o nella stanza delle luci d’alabastro a casa di Albaluna. Non avrebbero smesso di giocare neppure ad occhi chiusi nel buio della notte.




Gianna ... alle prese con la sua faccia
(dall'album personale in facebook)




Brigatta Wonderful Words”, è il blog della Gianna, semplicemente … letterata. Leggere per credere: non il solito blog ma lo svilupparsi di un racconto o forse, meglio, d’una favola. L’ho conosciuta in un altro sito di scrittura, ozoz, imparando ad apprezzare i suoi racconti e leggendola con piacere. Adora i gatti, naturalmente i libri, l’arte, il cinema. Una curiosità: in un quiz che testava l’appropriatezza nell’uso della lingua italiana lei, deliziosa penna rosa e azzurra, ha registrato un miserello 57% dimostrando scarsa concentrazione e bassa attenzione ma del resto, con tanta fantasia, come si può pensare d’ingabbiarla in regole e schemi fosser pure letterari?

sabato 28 gennaio 2012

“Chapel”, racconto breve di Maria Cristina Solza, milanese, blogger

L'impagliatore, olio su tela di Angela Melfa



Mentre usciva dalla banca, il semaforo era diventato rosso; l'aria era umida, indecisa se essere pioggia oppure no. Una figura dall'altra parte della strada, seduta su un gradino davanti ad una vetrina, attirò la sua attenzione: un uomo giovane, minuto, riparava sedie impagliate, ad uno degli angoli dove anche suo padre riparava sedie impagliate.

Se lo ricordava bene, un omone con grandi occhi celesti, i capelli ed il viso rossicci, lo vedeva sempre da bambina quando accompagnava la mamma in corso Vercelli, contornato da sedie, e anche da ombrelli. Chissà se esiste ancora qualcuno che porta a riparare l'ombrello, lei per esempio non lo faceva, li comprava da poco prezzo, si autodistruggevano o li perdeva prima.

Poi quando aveva cambiato casa, lo aveva chiamato per rifare l'impagliatura di tre sedie: ora, le sedie impagliate per quanto belle non le comprerebbe più. Era rimasta stupita, ed anche un po' delusa, che fosse venuto a ritirare le sedie a casa, e disponesse di un furgoncino e di un laboratorio, aveva sempre pensato che tutto si svolgesse agli angoli delle vie.

Le sedie gliele aveva anche riportate, a casa, accompagnato da un ragazzino. Il padre si chiamava Bernardo, o Giovanni, non si ricordava bene, il figlio Marco, forse, come il suo. Non ci si fa caso di solito a queste cose, ma pensandoci, questo sconosciuto l'aveva vista crescere.
 
Camminare bambina per mano alla mamma, e da madre, spingere il passeggino. Pensieri veloci, uno dentro l'altro, il tempo di un semaforo. Passandogli vicino lo guardò mentre martellava il telaio di una sedia. L'uomo giovane alzò la testa, due occhi azzurrissimi la scrutarono e le sorrisero, per riabbassarsi subito sul lavoro. Fisionomie.

venerdì 27 gennaio 2012

“Il lago e lo spaventapasseri”, racconto breve di Giuseppe Merico da Bologna

Wood duck, oil on canvas by Jack Barnhill

Si avvicinò al bordo del lago e se ne stette lì a guardarlo. C'erano le anatre coi loro colori che decollavano dall'acqua, dove il lago non era ghiacciato. Si ricordò di una cosa grumosa e ispida come una palla di pelo, all'interno c'erano il lavoro, i giorni della settimana, la postura di quelli che odiava e le parole cattive. Scacciò via il pensiero e lo gettò nel lago, il ghiaccio si ruppe con un suono di ossa spezzate. Più in là c'era un tramonto silenzioso: il sole scivolava rosso attraverso il canneto. Guardò ancora un po' la mota che ne se stava sul bordo, gli parve di vedere un pesce morto, seccato. Guardò meglio ma il pesce non c'era. Poi di colpo lo spaventapasseri gli sorrise. Lui ricambiò il sorriso, si guardò le scarpe sporche di fango e riprese a camminare lungo la strada pensando alla parola "per sempre". Quando rientrò a casa, sua moglie se ne stava in un angolo, vicino alla finestra, piangeva. Lui le chiese cosa fosse accaduto, lei rispose che la tazza di sua madre, quella che le aveva lasciato sua madre prima di morire- quella con il castoro disegnato da una parte- si era rotta. Sua moglie se ne stava lì con i cocci sparsi per terra e non aveva il coraggio di raccoglierli, perchè pensava che se lo avesse fatto, tutto ciò che le rimaneva di sua madre sarebbe andato perduto in un posto buio. Lui la abbracciò, lei continuò con il suo pianto sommesso. Fuori dalla finestra lo spaventapasseri guardava i due mentre i cani randagi abbaiavano e la notte si apprestava con calma a uccidere ogni cosa.

giovedì 26 gennaio 2012

“Nata il 24 Maggio 1915”, racconto contro tutte le guerre di Gianni Langmann da Milano

1917, Truppa austriaca in marcia verso il Monte Nero a nord est di Caporetto  


Era nata a Guastalla,in provincia di Reggio Emilia, il 24 Maggio 1915. Sì, proprio lo stesso giorno in cui le nostre truppe ricevettero l'ordine di partenza per il fronte della prima guerra mondiale. Suo padre aveva 25 anni e da bravo italiano, cosciente di adempiere al dovere al quale era stato chiamato, come centinaia di migliaia di altri coscritti, si presentò al punto di raggruppamento delle cittadine limitrofe, stabilito a Parma.

Da lì avrebbe preso la tradotta militare in partenza per il fronte che avrebbe visto impegnati i nostri soldati nelle grandi battaglie di Caporetto, dell'Adamello e del Piave.

Guastalla, dove abitavano i suoi genitori, dista da Parma circa 40 chilometri. Al tempo non esistevano mezzi di comunicazione e le strade  non erano asfaltate come al giorno d'oggi. Erano polverose e piene di buche e sassi. Il transito era molto difficoltoso e faticoso per chiunque decidesse di recarsi nel capoluogo.

Suo padre, in procinto di partire, venne a sapere dal fratello della sua nascita, avvenuta proprio in quel giorno alle 16,30. Come fare per potere vederla prima di partire? Chiese di parlare al Signor Tenente e, giunto in sua presenza, lo mise a conoscenza della magnifica coincidenza che gli era stata comunicata, e lo supplicò di concedergli il permesso di ritornare a Guastalla, giusto il tempo necessario di una fugace visita per vedere la sua bimba, appena nata.

In un primo momento, l'Ufficiale disse che non era possibile poichè l'ordine di partenza era imminente e se lui fosse risultato assente alla chiama, sarebbe stato considerato disertore, passibile di fucilazione. Aggiunse che lui stesso, come ufficiale superiore, avrebbe subito seri e gravi provvedimenti disciplinari.

Ma la partenza per il fronte fu posticipata di alcune ore e, ad una nuova richiesta del padre, il Tenente valutò possibile esaudire il desiderio del soldato. Gli chiese la sua parola d'onore che sarebbe ritornato in tempo per l'orario di partenza stabilito. Il Signor Tenente, nel comunicargli il permesso disse : "Mi raccomando, veda di tornare e mantenere la parola data, altrimenti ci fucilano tutti e due", e aggiunse guardandolo negli occhi :"Comunque ho fiducia nella sua onestà".

Inforcata una bicicletta sebbene in cattivo stato e malfunzionante, si mise a pedalare e a percorrere i 40 chilometri che lo separavano da Parma a Guastalla. Arrivò a casa, vide sua figlia, la baciò, baciò anche la moglie e con le lacrime agli occhi, disse che aveva dato la parola d'onore al Signor Tenente e il suo dovere era quello di ritornare immediatamente al suo reparto. Chissà quanti e quali pensieri gli vennero in mente durante il percorso di ritorno attraverso le strade polverose della pianura emiliana...

Arrivato a Parma,si presentò al Tenente che, congratulandosi con lui per aver mantenuto la parola data, gli disse : "Bravo!, lei è stato fedele alla Patria nel poco, avrà sicuramente la ricompensa per il suo comportamento leale".

Dopo circa 40 minuti dal rientro nella Compagnia, dal Comando Territoriale, arrivò l'ordine della partenza per il fronte. Ad ogni stazione dove il treno sostava, i militari erano oggetto di attenzione benevola da parte di donne e bambini; alcuni donavano fiori e cibo e oggetti religiosi, dicendo loro che sarebbero stati presenti nelle loro preghiere.

Non tutto però era piacevole; alcuni militari si lamentavano, insultavano chi li salutava, altri bestemmiavano per la sorte avversa che li aveva colpiti.

Poi tutti, Ufficiali e soldati, nei giorni, nei mesi, negli anni successivi immersi nel grande, enorme, crudele conflitto.

Il computo include più di un milione di soldati italiani in ritirata nella disfatta di Caporetto; oltre tercentomila civili in fuga davanti al nemico. Una esplosione di caos assoluto, più di trecentomila soldati italiani furono fatti prigionieri. Molti furono processati e fucilati per diserzione. Poi, a novembre, sul fiume Piave, la logica della guerra mutò il suo corso.

Dopo aver combattuto per tutto il periodo del conflitto, suo padre ritornò a casa sano e salvo. Solo durante un'azione, fu ferito e una scheggia gli era rimasta tra la scatola cranica ed il cuoio capelluto senza danni irreparabili per la sua integrità fisica e psichica.

Naturalmente, considerata la posizione, non volle mai farsi operare. Sosteneva che :"Non faceva male ed era il ricordo della sua giovinezza".

La profezia del Signor Tenente, si era avverata.

Il padre si portò con sè, morendo, la scheggia della bomba di quel conflitto mondiale.

mercoledì 25 gennaio 2012

"Prossima fermata Longobardia", racconto 1991 di Claudio Arzani, pubblicato in 'Vietato attraversare ...'

Notturno, olio su tela di Franco Cimitan

Una notte da dimenticare, il cielo oscuro più della pece lanciava acqua a secchi, illuminando di tanto in tanto di grigio elettrico i contorni della campagna. Luigi, percorso da un brivido, si strinse nel giaccone, ben lieto di essere ormai al sicuro nella vettura del Locale Piacenza-Pavia. Il finestrino era una lastra nera sulla quale le gocce d'acqua si rincorrevano forsennate. Dal soffitto un rivolo di pioggia aveva trovato una infinitesimale sconnessione tra le lastre ormai troppo vecchie, s'insinuava a percorrere la parete scendendo giù giù fino al corridoio.

     D’improvviso, con il lancinante stridio del ferro contro il ferro, il convoglio rallentò la corsa nella campagna. “Sarmato, Sarmato, stazione di Sarmato”, urlò gracchiante un altoparlante che la manutenzione aveva dimenticato. Attraverso il finestrino Luigi guardò l'ondeggiare della lampada che a malapena illuminava la porta della stazioncina bagnata dall'acqua scrosciante. Il fulmine lo colse di sorpresa, arretrò spaventato, giusto il tempo di notare i contorni neri stagliati contro il cielo del castello e dell'antica chiesa gotica sulla collina, rimasti impressi sulla pupilla nei pochi istanti di luce provocati dal lampo.

     Ebbe l'impressione di vedere un'orda di neri armigeri ed argentei cavalieri distendersi nella pianura sottostante, avventarsi contro le mura della torre. Sbattè le palpebre, incredulo scosse la testa, riguardò ma, nel buio, solo pioggia e la lampada ondeggiante.

     Il treno ripartì. Luigi sorrise della sua fantasia e si addormentò. Non vide Arena Po a ferro e fuoco, non Stradella ridotta ad alloggiamento delle truppe imperiali. Si risvegliò quando le luci della vettura si spensero con un lampo azzurrognolo. Il finestrino gli rimandò l'immagine scorrente della campagna buia e, in lontananza, il profilo delle torri di Pavia.

     Sferragliando il convoglio si lanciò sul Ticino e, in quel momento, la porta si disintegrò. Nel buio della vettura Luigi intravide a malapena l'ascia levata e, subito dopo, il ghigno eccitato del guerriero. Portava i fregi imperiali di Corrado II.

     Nell’estate del 1026, ricordò, le truppe imperiali cinsero d’assedio la ribelle Pavia. Fu l'ultimo pensiero di Luigi. Il guerriero ne scavalcò il corpo, avventandosi verso la cabina di guida.

martedì 24 gennaio 2012

“L’arte di arrangiarsi”: storia di Terenzio, castellano, socialista dell’Ottocento [ racconto di Paolo Brega ]

[ "Felice Cavallotti", radicalsocialista ]


Siamo abituati all’elegia dei personaggi che, con le loro idee, hanno fatto la storia e tendiamo ad enfatizzarne le gesta, trasformando il concreto vivere in favola epica. Paolo Brega, castellano, di un socialista della prima ora, Terenzio di Castel San Giovanni, contemporaneo di Felice Cavallotti, ci racconta, invece, l’essere uomo nell’ordinario quotidiano, a partire dal disperato bisogno di soldi che aguzza l’ingegno e, appunto, l’arte di arrangiarsi: sono questi, quelli che s’arrangiano, quelli che s’ingegnano, i veri eroi dell'esistenza libera e consapevole



[ Maggio 1898, Milano, protesta del pane, barricate verso via Volta a Porta Garibaldi ]

Dopo aver trascorso un decennio nelle contrade naifs di Luzzara, Terenzio fece ritorno tra i vigneti di Creta con la moglie Corinna, nobildonna alquanto decaduta, e quattro figli. Nominato maestro elementare a Castel San Giovanni pensò di dedicarsi alla giovanile passione giornalistica pubblicando un giornaletto politico orientato alla scapigliatura radicale di Felice Cavallotti.

Con le critiche, anche aspre, ai reazionari nazionali conquistò un certo consenso di lettori e conseguenti introiti pubblicitari. Fu quando cominciò a graffiare la consorteria locale e gli affari del Comune che iniziarono i guai.

Essendo i “perfidi consorti” influenti su quei delegati scolastici che sorvegliavano il suo operato di insegnante e su quei commercianti che pagavano la pubblicità, si trovò ben presto senza lavoro e con gli oneri derivanti dalla stampa e dalla diffusione (in diminuzione) del suo giornaletto.

Le tasche e la dispensa di casa si svuotarono rapidamente e inesorabilmente costringendolo a trasferirsi a Borgonovo, dove per antiche rivalità campanilistiche, quelle che erano considerate colpe nel luogo di provenienza si trasformavano in benemerenze. Qui riuscì a “sbarcare il lunario” e trovò i finanziamenti per impiantare un nuovo e più ambizioso giornale.

Memore dei pasti saltati in precedenza, Terenzio pensò di utilizzare il nuovo periodico come cassa di risonanza di originali espedienti che lo riguardavano. I suoi nuovi lettori informandosi delle battaglie cavallottiane e delle prime agitazioni contadine scoprivano così che dal direttore del giornale potevano avere <preventivi per l’installazione di parafulmini> della ditta milanese “Cav. Mazzoni” o acquistare biciclette londinesi “Iron e Worrhos” <al prezzo di £. 240 cadauna>.

All’appuntamento settimanale con le polemiche anticlericali e antigovernative si univano le segnalazioni per l’acquisto “di carta da zucchero, da caffè, da pasta e da alimenti in genere” rivolgendosi alla titolata moglie di Terenzio, mentre con lui personalmente si potevano negoziare confezioni dello “Sciroppo Gordini” <depurativo e rinfrescativi del sangue e degli umori>.

Nel gennaio 1897, mentre si avvicinavano le elezioni politiche ed i conferenzieri radicali imperversavano in ogni angolo della Val Tidone, il direttore del giornale che li fiancheggiava si spostava spesso a Piacenza, in via Sant’Eufemia 12 per condurre un “Ufficio d’affari  e di ragioneria” <in grado di disbrigare dietro mite compenso transazioni e pratiche di ogni sorta>.

Mentre per Cavallotti si avvicinava l’ora dell’ultimo fatale duello, Terenzio mostrava particolare lungimiranza, abbracciando l’emergente socialismo e nel frattempo ai suoi lettori poteva vendere, oltre alla nuova fede politica, anche gli stampati piacentini della “Tipografia Progresso” o le fisarmoniche stradelline di “Mariano Dallapé”.

Le sommosse popolari del 1898 con annesse cannonate di Bava Beccaris portarono qualche guaio al giornale e qualche giorno di prigione al suo direttore, nascostosi inutilmente in un cascinale di Bilegno.

Le pubblicazioni sarebbero riprese dopo qualche tempo, ma nella nuova veste di organo ufficiale di partito che mal si conciliava con le inserzioni pubblicitarie personali del suo fondatore ed ex direttore.

Ma ormai la redazione era diventata il recapito naturale delle attività extragiornalistiche di Terenzio ed i nuovi gestori furono costretti a pubblicare un comunicato per invitare <coloro che avevano in corso interessi privati con l’ex direttore ad inviare la corrispondenza presso il suo “Ufficio di commissioni, rappresentanze e patrocinio legale”.

Per molti anni non si ebbero più notizie dell’attività giornalistica di Terenzio, né delle sue molteplici attività “secondarie”.

Trasferitosi a Piacenza e lasciato l’insegnamento, aveva trovato impiego presso l’Ufficio Daziario. I suoi figli si erano nel frattempo accasati e forse si era attenuato il suo bisogno di soldi.

Solo con la notizia della sua scomparsa si scoprì che negli anni precedenti  non aveva abbandonato l’esercizio dell’arte di arrangiarsi.

Fra coloro che manifestarono pubblicamente il loro cordoglio, figurava il direttore dell’Agenzia Pompe Funebri alla quale Terenzio <aveva prestato saltuariamente la sua opera>.

[ Maggio 1898, Milano, protesta del pane, barricate sul corso Garibaldi ]