domenica 22 gennaio 2012

"Gloria", racconto di Claudio Arzani, pubblicato sul sito 'latelanera'

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[ la storia di Gloria, scritta nei primi anni novanta, ha partecipato senza troppa fortuna al concorso "Sanguinario Valentino, storie d'amore finite male" (2004) e per lungo tempo ha fatto bella mostra di sè nella biblioteca virtuale del sito www.latelanera.com. Detto questo voglio in particolare dedicarla a N.M. per avermi detto, mentre le tenevo la mano per ammirare il suo meraviglioso brillante e mi perdevo in un mondo di sogno, "adesso restituiscimi la mia mano" commentando successivamente il tempo a suo dire eccessivo della trattenuta, mostrando con ciò delicatezza e vera sensibilità da elefante afghano: per questo meritando un ruolo importante nella storia, quello dell'arcigna Maga Magò. Senza con ciò naturalmente negarle immeritata simpatia e malriposto ma comunque eterno amore ]


Innamorati di periferia, 
olio su tela di Salvo Lombardo


Ammirò con malcelata soddisfazione i capelli con tutti quei ricci neri: "un buon lavoro", confermò alla Gloria che le restituiva il sorriso attraverso lo specchio. Si, Luciana le aveva promesso un miracolo e, come per incanto, i suoi capelli così dritti da ricordare quelli di Amelia, la strega del Vesuvio, erano diventati "mossi come le onde del mare, ciuffi allegri che si rincorrono sulla testa".
Un lungo pomeriggio tra riviste sfogliate, casco e Luciana che sferruzzava: pettini, spazzole, forbici. Alla fine un conto salato, naturalmente niente ricevuta fiscale, e la consapevolezza che l'indomani, dopo una serena dormita, tanto lavoro sarebbe finito in fumo.
Guardò con intensità la Gloria dello specchio che le restituì un'occhiata torva e una luce di grandeur negli occhi: "ma oggi siamo tanto belle da far stramazzare al suolo il nostro Paperino". E forse chissà, "Paperone ci consegnerà il suo amato primo cent!". Una risata cristallina, una punta di profumo, l'ultima sistemata alla gonna, una raddrizzatina al maglione, si sentì giovane, leggera, piena di vita, si, si sentiva felice.


Finalmente il campanello squillò: "ben arrivato, mio amato Paperino".
Quanti anni di silenzio, per quel campanello! Si sentì pervadere da un istante di tristezza: undici anni prima aveva attraversato quella porta, come da tradizione portata in braccio da Giovanni.
Bellissima, radiosa, splendente nell'abito bianco selezionato con tanta cura; e lui, grande, grosso, un gran bell'uomo, proprio come piaceva a lei. Risate, allegria, una festosa cerimonia alle spalle, vino e tante portate, e tanta voglia di salutare amici e parenti, di correre in camera, di far l'amore col suo uomo.
Undici anni, da allora.
Poi le settimane assieme, la colazione, il bacio prima del lavoro, l'allegria del ritorno, il preparargli la cena con le sue mani che s'infilavano dappertutto, le resistenze sempre meno convinte, sempre più timide e, alla fine, l'amore: sul letto, in cucina, nel bagno, in salotto, "quante anatre bruciate, amore mio!".
Tredici mesi, poi Giovanni se ne andò.  "Vado a prendere le sigarette", disse, proprio come nelle barzellette ma, all'angolo di via Roma, lo aspettava una macchina nera, uno strumento infernale guidato da un assassino ubriaco.
Da allora, per quel campanello, era stato il silenzio: dieci anni di duri sacrifici, di lacrime inconsolate.
E il campanello squillò ancora, "Paperino è impaziente, vengo subito gioia mia".
Un incontro casuale, solo poche settimane prima, alla fermata del pullman. Due sguardi che s'incrociano e, subito, una strana sensazione dentro, il desiderio che lui s'avvicinasse, il desiderio di parlargli, di conoscerlo. Ed era andata proprio così: lui, gentile, compito, s'era avvicinato, s'era proposto, l'aveva invitata per un caffè. Un caffè bevuto in fretta, in piedi, poi la corsa al pullman e l'appuntamento per un altro caffè. Giorni e giorni di incontri casuali, di occasioni trovate e cercate, poi le telefonate, i fiori "per l'onomastico che non c'è", i fiori "per un bacio", i fiori "perché sei bella", i fiori "perché" e, alla fine, il primo appuntamento.
Il campanello squillò per la terza volta e, finalmente, Gloria andò incontro al suo Riccardo: un saluto affettuoso, lui l'accompagnò alla macchina, le aprì la porta, l'aiutò a salire. Dalla finestra del terzo piano la solita signora Maggi, la perpetua del caseggiato, si sporse per vedere meglio: "crepa d'invidia, Maga Magò", pensò Gloria, mentre l'auto partiva e Riccardo le sorrideva.
Fu una sera fantastica. Un ristorante a due passi dal Teatro Municipale dove non aveva mai pensato di mettere piede e, a dire il vero, nemmeno Riccardo lo aveva mai previsto ma, confidenza per confidenza, "tu valevi ben la pena di qualcosa di speciale".
Un omino a modo, il suo Paperino, onesto lavoratore, qualche soldo da parte, un appartamento in proprietà, qualche sogno nel cassetto, molta sfortuna con le donne: per ogni Paperina che incontrava, c'era sempre qualche Gastone che sapeva farsi preferire. Tanta voglia di parlare, tanta gentilezza, tanta dolcezza e anche quel minimo di decisione che, in un uomo, non guasta mai.
Nel buio della sera, finita la cena, vagarono nella città senza meta, parlando, parlando, parlando, e, non saprebbe dire come, si ritrovarono affianco del grande fiume, tra piante e canneti, con l'immancabile luna che colorava d'argento le acque. Gloria si sentì avvolta nella tenerezza di Riccardo, nei suoi baci, il primo timido, d'esplorazione, e poi via via sempre più convinti sempre più caldi, sempre più intensi. Quelle mani! S'infilavano dappertutto, e lei resisteva, ne toglieva una, ne spuntava un'altra, la ritoglieva e lui la baciava, si abbandonava al trasporto di quel bacio e quasi non avvertiva il maglione che si alzava, "ma cosa fai?", chiedeva, e lui rispondeva "nulla", si tranquillizzava, lui la baciava e sentiva sparire la gonna.
Finché decise che basta, che il limite per quella sera era superato, era ora di tornare a casa! Riaprì gli occhi, rimase senza parole: si ritrovò sdraiata sul sedile, i suoi vestiti appoggiati al volante, la faccia tonda della luna che, attraverso il finestrino, le sorrideva maliziosa. "Ma come ha fatto?", si domandò, stupita. L'attimo le fu fatale, in quell'istante sentì Paperino che diventava una cosa sola con Amelia, una fatacosa, e, con stupore, si rese conto che Amelia era lei!
Fu il Vesuvio e, da quel giorno, fu felice.


Seguirono altre sere, altre cene, poi venne la pizza, il cinema, il teatro, la riva del grande fiume fu invece sostituita dalla camera di Riccardo, più comoda ed utilizzabile, perché no, anche di mattina, di pomeriggio e, qualche volta, per la notte intera. Si aggiunse qualche gita fuori porta, la prima, naturalmente, a Napoli, all'ombra del Vesuvio; poi qualche fine settimana al mare, nella tranquilla Gabicce; nel fresco dei monti, a Cervinia, qualche momento culturale, a Venezia, a visitare la mostra dei Celti.
Mesi e mesi di felicità. Poi, un giorno, dopo un periodo d'intenso lavoro, Paperino la invitò a due giorni nelle Cinque Terre. Non era mai stata in Liguria e Riccardo le parlò di posti bellissimi, di alberghi protesi a strapiombo sul mare, di aria salmastra che diventa tuttuno con l'aria di verdi colline stracolme di pinete e vigneti. Sistemò le cose a casa e partì con gioia, senza curarsi della fatica del lungo viaggio da affrontare con l'ormai vecchia 113: superate curve e viadotti della Cisa, in effetti si sentì un po' stanca all'apparire del cartello di LaSpezia ma l'aria del mare la ritemprò. Per non parlare del panorama!
Scendevano le prime ore della sera e loro affrontavano la collina che, a detta di Riccardo e dei segnali stradali, li avrebbe portati alle Cinque Terre.
Dopo qualche chilometro Riccardo accostò: Gloria sbirciò il cielo, non vide la luna e si tranquillizzò. No, Riccardo voleva mostrarle lo spettacolo, laggiù in basso, delle luci di LaSpezia riflessa nelle acque del mare, le luci degli incrociatori militari che beccheggiavano alla rada nel porto, la vita che scorreva in uno spettacolo impareggiabile. Rimase senza parole, e quasi non avvertì il movimento di lui che le alzava la gonna: tentò di riaversi, ma gli occhi le sfuggirono, s'alzarono al cielo mentre un alito di vento, una leggera brezza marina spostava le palme rivelando il quarto di luna finallora nascosto. Sorrideva, maliziosamente. Si rilassò, "è tutto normale", cercò le labbra di Riccardo, tanto per tenersi in equilibrio, e si lasciò andare al suo amore.
Quando riprese il controllo di sé, erano di nuovo in viaggio. Anzi, Riccardo stava fermando la macchina: "di nuovo?", si chiese Gloria un po' spaesata, cominciando a domandarsi se non fosse il caso di prendere la pillola. Invece, più semplicemente, "siamo arrivati", annunciò Riccardo, e lei tirò un sospiro di sollievo.


Proprio come aveva promesso Riccardo l'aveva portata in un albergo a strapiombo sul mare, una grande stanza tutta per loro, con un enorme balcone per lei, per godere dei raggi del sole e ripresentarsi al lavoro con una dorata tintarella, "da far schiattare d'invidia Maga Magò". Sì, l'indomani l'avrebbe dedicato all'abbronzatura, pensò aggirandosi sul terrazzo quasi a prenderne possesso: e fu in quel momento che, ammirando la distesa del mare, gli occhi le sfuggirono al cielo e rinotò il sogghigno del quarto di luna: "oh, mio Dio!".
Guardò Riccardo, incrociò i suoi occhi, ne vide la luce significativa e capì di non aver speranza; rassegnata, si rivolse al bagno, scacciò la tentazione di richiudersi e di dormire nella vasca, prese la pillola: non che servisse, "però non si sa mai". Non ebbe il tempo di raggiungere il letto: voleva provarne la morbidezza, pregustava già il riposo della notte dopo il lungo viaggio, ma Riccardo l'intercettò, avvolgendola in un dolcissimo abbraccio. "Ci siamo", pensò e stavolta cercò di mantenere la concentrazione, ben attenta ai movimenti delle sue mani, inesorabilmente dirette verso la gonna.
Niente! Solo un dolcissimo bacio sulla guancia eppoi così, d'improvviso, senza preavviso, "Gloria, mi vuoi sposare?".
Perse completamente il controllo, si sentì trasportare in cielo da un magnifico cavallo alato, immacolato, che galoppava tra due ali di angeli con trombe e pennacchi e, in lontananza, le campane di tutto il mondo che suonavano a festa. Era finita, dopo undici anni la solitudine era finita. Sentì un leggiadro profumo diffondersi nell'aria, riempirle le narici e, in quel momento, le apparve il volto di Luisa, sua figlia: stava giocando con le bambole in giardino.
Si risvegliò e, neanche a dirlo, il leggiadro profumo altro non era che il sudore di Riccardo: era stesa sul letto, la gonna alzata quel tanto che basta.
Lo guardò, vide Paperino trasformarsi nel lupo Ezechiele o forse, meglio, nel famelico Lupo Alberto, vide Luisa, appetibile gallinella sedicenne, portata in un cespuglio "per farti vedere la mia raccolta di farfalle".
Scostò Riccardo, "te le do io, le farfalle!".
Lui la guardò senza capire.
"No, che non ti sposo, come posso, amore mio?"
Si sistemò alla meno peggio la gonna, corse in bagno, girò la chiave nella toppa con rabbia, si sistemò nella vasca abbandonandosi ad un lungo pianto sommesso.
Luisa, che era rimasta dalla nonna, Luisa che aveva dieci anni, Luisa che cresceva come un fiore, lei poteva far questo a Luisa? No, non poteva, doveva restare sola, sola, sola, "ti prego capiscimi, Paperino".
Paperino non capì, pensò all'ombra lunga di un qualche Gennarino e non capì.
Quando, alle sei del mattino, lei uscì dal bagno trovò un biglietto, "Peccato, io ci contavo" e i soldi per il biglietto del treno, naturalmente prima classe.
Si lasciò cadere, seduta sul letto, le gambe larghe, la gonna un po' su come piaceva a lui e rimase per ore a fissare il muro bianco, immacolato come il cavallo alato del momento più bello della sua vita. "Ti amo, ti amo, ti amo", continuò a ripetere finché non scese la sera, il sole al tramonto allungò sempre più le ombre, il buio lentamente avvolse le cose della stanza.
Uscì sulla terrazza, alla ricerca della luna, ma un velo di lacrime le coprì gli occhi, "io ti amo" ma no, non poteva lasciare la piccola Paperetta yè yè nelle fauci di Lupo Alberto e ogni uomo, si sa, da che mondo è mondo è sempre stato un feroce lupo cacciatore.

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